State of Cinema 2020

Il tempo presente del cinema

VERTAALD DOOR TRANSLATED BY TRADUIT PAR Fabiana Proietti

Chi pensa il cinema oggi?

Chi pensa oggi il cinema, da quale punto di vista e secondo quali valori? E cosa pensa il cinema di se stesso? In nome di quale etica e di quali principi?

Due ordini di domande molto diversi e le cui risposte sembrano essersi frammentate - soprattutto su internet - oltre che molto difficili da organizzare con coerenza.

Visto da un’angolazione limitata, quella del cinema francese, mi sembra che, per quanto io non sia personalmente intervenuto sulla questione, le forti personalità di Serge Daney e Claude Lanzmann siano state i punti di riferimento, creando una sorta di post-scriptum funebre alla cinefilia, più post-gauchista che postmoderno, caratterizzato dalla nozione del proibito.

Da una parte “il carrello di Kapo”, criticato in un articolo di Jacques Rivette sul film di Gillo Pontecorvo (autore de La battaglia di Algeri e fino a quel momento idolo indistruttibile del cinema anticolonialista) che diventa, trent’anni dopo, per Daney, che non ha mai visto il film, l’incarnazione dell’oscenità, l’estetizzazione della deportazione nel momento in cui si dà una forma letteraria, sconvolgente, alla sua storia personale fino ad allora repressa, incentrata sulla figura del padre mai conosciuto, un ebreo polacco vittima dei campi.

Claude Lanzmann, autore di uno straordinario capolavoro, Shoah, ha invece costruito attorno a questa questione un’etica del cinema che ha lasciato il segno, impossessandosi in maniera trascendentale della soluzione finale, vietandosi di utilizzare immagini d’archivio.

La combinazione di queste due posizioni ha ricoperto una funzione teorica per un’intera generazione di cineasti, toccati di rado personalmente da tali questioni storiche, ma in cerca di una morale che le rovine della cinefilia classica, già decisamente scossa dal gauchismo, non potevano dargli.

È il paradosso di questo momento della teoria del cinema quello di non aver nulla di costruttivo da proporre se non di stabilire una sorta di codice della restrizione. Accompagnato dallo spettro, agitato con compiacenza, in particolare da Godard e Daney, della morte del cinema. Non mi sarebbe piaciuto iniziare a fare cinema in questa atmosfera deleteria. Ed è ad Arnaud Desplechin, con La sentinella - film che ho sempre pensato sarebbe piaciuto a Daney - che è toccato sciogliere questo nodo, strappare il cinema a questa maledizione, riconciliandolo con la Storia e la finzione.

Ma in fondo, non c’era una verità nelle recriminazioni di Serge Daney, che nel corso degli Anni Settanta era salito sul treno post-baziniano? Non aveva ragione riguardo agli ostacoli della cinefilia nella quale si era formato e che vedeva disfarsi, e rinnegare anche, mentre lui stesso moriva?

Che cosa rimane di queste riflessioni? Sono ancora valide? Hanno varcato la frontiera della Francia? Non proprio. Parlano ai giovani cineasti? Hanno avuto dei posteri? Sono pertinenti nel quadro di questa riflessione sullo stato presente del cinema? Appena.

(1) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Se ci si interroga sul luogo di una ridefinizione della cinefilia al giorno d’oggi, è impossibile non individuarlo nel web e nei cambiamenti che hanno investito sia i mezzi di fruizione del cinema sia il modo in cui ci muoviamo attraverso la sua storia.

È un luogo comune privo di interesse, e tuttavia una verità da tenere a mente, quello che le generazioni di oggi dispongono di un accesso infinitamente più ampio alla storia, a tutta la storia del cinema, così come al suo presente, inimmaginabile per l’umanità pre-digitale che ha avuto accesso - unicamente grazie alla Cinémathèque - a una piccolissima parte di capolavori cinematografici, alcuni dei quali erano del tutto inaccessibili. 

Non vediamo tutto ma abbiamo accesso quasi a tutto, per di più gratuitamente. La cinefilia si è dissolta in una miriade di nicchie antagoniste, ognuna articolata attorno al frammento di un passato glorioso, al punto che il suo valore, anche simbolico, non finisce di svalutarsi. 

Rimangono dei film, spesso molto buoni - si fanno più bei film oggigiorno che in qualsiasi altra epoca - la cui posta in gioco viene rilanciata di continuo: vincerà l’Oscar, la Palma, il Leone, l’Orso, otterrà delle nomination, quante stelle? Mentre i cineasti, nel senso di autori, svaniscono. Non dico che non li si riconosca in quanto tali ma piuttosto che oggi diventa difficile seguire i fili sotterranei di un’opera e quello che accade nella ricerca, anche insensata e vana, di un artista.

Non si tratta di questo o quel film, al prossimo tutto sarà rimesso in discussione.

In fondo, anche questa parte dell’eredità della cinefilia è decomposta nella frammentazione digitale e nell’indebolimento della rilevanza teorica che vi si opera.

(2) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Sulla base della sociologia e del comunitarismo

Quali teorie dialogano con il cinema nel nostro presente, quali teorie hanno ragione di esistere, di influenzare l’ispirazione dei cineasti?

A chi bisogna rendere conto, in tal senso? In effetti si ha un po’ paura della risposta.

Mi sembra che siano la sociologia - o più semplicemente la politica - e il comunitarismo. 

Ma è una cosa buona o cattiva? Mi sto forse avventurando su un terreno fragile, instabile? Credo sia necessario porsi queste domande anche se dubito di poter formulare una risposta soddisfacente e tanto più condivisibile.

Conosciamo i mali della nostra epoca. Riscaldamento globale, disastro ecologico, crescita folle delle ineguaglianze sociali, gestione impossibile dei flussi migratori e, soprattutto, l’incapacità dei governi, degli Stati, a trovare rispetto a questi temi ansiogeni - e non parlo di guerre o tantomeno di epidemie e disoccupazione - una risposta soddisfacente o quantomeno vagamente rassicurante.

Anzi, si direbbe che l’opposizione autodistruttiva rispetto alla preoccupazione per questi problemi sia diventata nelle nostre democrazie una risorsa elettorale.

Che i cineasti siano dei cittadini e legittimamente parte in causa nelle questioni che attraversano la società è normale. Ma la politica è il regno del complesso e non produce necessariamente buon cinema. 

Inoltre, il cinema di finzione fatica a cogliere le sfide della società, che sono molto meglio analizzate dall'editoria, dal giornalismo d’inchiesta oppure dal documentario, forme più legittime, che hanno a loro disposizione lo spazio e il tempo per trattare temi problematici o sensibili con il rigore e la precisione necessaria e che il cinema può conferirgli raramente. 

Dal mio punto di vista, la sociologia è una cattiva branca in cui rifugiarsi, perché le semplificazioni, le commistioni e la drammatizzazione rischiano di troncare i fatti, di ridurli a comode generalizzazioni, con il risultato di suscitare una lettura errata e altrettanto dannosa.

Non intendo con questo criticare o delegittimare un cinema che voglia rendere conto della città e dei cittadini. Al contrario, è perfettamente lodevole. Mi limito a dire che lo trovo molto difficile, e talvolta pericoloso, e che in ogni caso non vi trovo una chiave che permetterebbe di pensare il cinema contemporaneo in modo soddisfacente o stimolante, e ancor meno quello del futuro.

(3) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Cosa pensare, d’altronde, del comunitarismo, che è diventato un fattore attivo nelle nostre società e che a sua volta interroga il cinema per non essere interrogato da lui, cosa che mi sembrerebbe più profonda, rischiosa e fondamentalmente più stimolante. Ho in effetti sempre avuto la convinzione che il ruolo del cinema, così come dell’arte, sia di mettere in discussione la società e non quello di essere messo in discussione da lei con interrogativi errati e prospettive falsate, come accade quasi sempre.

Sono stato adolescente negli Anni Settanta. L’ho ripetuto spesso e continuerò a farlo, tanto quell’epoca e la sua messa in discussione di tutti i valori della società mi hanno segnato.

Sono stato parte attiva di una controcultura che sosteneva la liberazione della vita quotidiana ed ero impegnato in lotte di sinistra che favorivano l’emancipazione dell’individuo piuttosto che le utopie collettiviste e il sostegno a dei regimi autoritari, anche genocidi. 

Ho visto la liberazione della parola e della pratica omosessuale, ho visto il rinnovamento del femminismo e le vittorie importanti che ha ottenuto, ho visto la creazione di un’identità franco-magrebina, di una cultura derivante dalle città dove venivano relegati gli immigrati africani incoraggiati a stabilirsi in Francia per lavorare come manodopera nelle grandi opere infrastrutturali della Francia gaullista.

In seguito, mi sono interessato di meno alle derive identitarie che sono venute da queste conquiste e alla loro strumentalizzazione politica o ideologica.

Può darsi che fossero inevitabili, che fossero necessarie, non lo so. 

Da parte mia, non ho mai pensato il rapporto con gli altri in funzione delle loro origini o delle loro preferenze sessuali. Quanto al mio rapporto con le donne e con il femminismo - che sarà per tutta la vita il mio partito politico prediletto, tanto sono convinto che nel nostro mondo la mascolinità tossica sia l’origine di tutti i mali - è Groucho Marx che ne ha dato la definizione migliore quando diceva che gli uomini sono delle donne come le altre. Non saprei dirlo meglio.

Queste note mi servono per definire sia chi sono sia, all’occorrenza, “da dove parlo”, per riprendere il gergo degli anni in politica. Con questo intendo che il cinema può essere comunitarista - dal mio punto di vista non ha nessuna vocazione ad esserlo, ma perché no? - ma questo comunitarismo non ha neanche alcuna rilevanza a sostituirsi all’assenza di riflessione teorica del cinema che oggi siamo costretti a constatare.

(4) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Cinema indipendente e piattaforme

È necessario che arrivi a parlare di Hollywood. Non ho praticamente niente di positivo da dire se non che la prosperità di quest’industria e le sue nuove modalità non mi piacciono affatto. Mi spaventa, mi disgusta persino, considerato che quello che è accaduto negli ultimi anni va all’opposto di ciò che ho sempre amato e ammirato nel cinema americano, capace di regalare a quest’arte la maggior parte dei suoi più grandi maestri, in ogni momento della storia del cinema.

Assistiamo ora al trionfo delle serie, della distribuzione dei film sulle piattaforme digitali e alla requisizione degli schermi al servizio di franchise per la maggior parte riuniti sotto lo Studio Disney, la cui egemonia pare ormai assoluta. 

Perché darsi la pena di finanziare un cinema che non abbia la vocazione di dare origine a sequel, spin-off, a in the universe of e il cui rapporto col pubblico è rischioso e imprevedibile? Già da molto tempo a Hollywood il terreno del film non fa che ridursi. A beneficio, talvolta, di un cinema indipendente molto fragile, costretto ad accontentarsi di budget irrisori - e in questo limitato nella sua pratica dalla sintassi cinematografica contemporanea, riservata alle grandi produzioni. 

E Netflix, Disney Plus, Apple ecc.: il cinema non vi si è forse rifugiato? Alfonso Cuarón, Martin Scorsese, i fratelli Safdie, Noah Baumbach non vi hanno trovato asilo politico? E l’ho fatto persino io dal momento che il mio film Wasp Network è stato distribuito, salvo poche eccezioni, da Netflix nella maggior parte dei Paesi, prima di tutto in Francia, dove ha riscontrato un onesto successo di pubblico sul grande schermo. Nessun altro distributore aveva proposto ai produttori delle alternative fattibili. 

Se c’è oggi un tema nel quale la riflessione sul cinema inciampa - e che necessiterebbe di strumenti teorici di cui purtroppo non disponiamo - è quello della confusione generata dalla radicale trasformazione della distribuzione e del finanziamento dei film.

Innanzitutto, le piattaforme hanno la vocazione a finanziare un cinema d’autore contemporaneo ambizioso, al di là della visibilità di circostanza che nasce dalla rivalità in quest’ambito tra nuovi concorrenti determinati ad accaparrarsi un’importante fetta del mercato? 

In altre parole, Netflix, che oggi ha ancora bisogno di prestigio e valore simbolico, ne avrà bisogno anche l’anno prossimo o quello dopo? Secondo me non proprio. 

Quanto agli Studios, ritorneranno al film quale modello economico o la deriva verso il franchise da una parte e le serie dall’altra è ormai messa agli atti?

Insomma, rimane ancora spazio per un cinema libero su grande schermo? Io credo che questa finestra si stia, se non per chiudere, quanto meno riducendo a vista d’occhio. 

Resta come unico vero modello un cinema indipendente, radicale, audace, ma ahimé dalla diffusione limitata.

(5) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Sono a mio agio con questa idea? Per nulla. Vengo dalle arti plastiche. Sono stato influenzato dalla poesia contemporanea e i miei gusti musicali mi hanno portato il più delle volte a seguire degli artisti situati nella nicchia della nicchia - per non parlare delle mie convinzioni, estetiche, filosofiche, politiche, terribilmente minoritarie all’interno della mia generazione. Ma se ho scelto di dedicarmi al cinema, è al contrario perché era di maggioranza, perché era l’ultima forma d’arte a toccare in profondità la società, a non essere rinchiusa nella propria fortezza, o nel proprio bunker, e nemmeno nella sua tribù o nel suo villaggio gallico. A non aver subito la travolgente deriva delle arti plastiche che hanno scelto di tagliarsi fuori dal mondo, alleandosi con il trionfante capitalismo finanziario, adottando una falsa radicalità cinica, quella che Guy Debord chiamava “il dadaismo di Stato”, e che le avrà valorizzate fino alla stratosfera.

Il cinema che mi ha ispirato, quello che amo, quello che ho cercato di mettere in atto, è un cinema impuro, aperto e accessibile in particolare a coloro per cui il cinema è spesso l’unica occasione di avere a che fare con l’arte per quel tanto che può essere vitale, benefica e, perché no, salutare.

In tal senso, penso allora che Alfonso Cuarón, Martin Scorsese, i fratelli Coen e altri ancora abbiano avuto ragione ad andare sul sicuro e affidare i loro film a Netflix? No, non lo credo. Penso che le loro opere recenti siano la dimostrazione stessa che il cinema nel quale io credo è vivo, è fattibile - la maggior parte di questi film avrebbero potuto essere finanziati senza troppe difficoltà al di fuori di Netflix e delle altre piattaforme - e che è l’estensione e il proseguimento dell’arte della nostra epoca, della nostra generazione; quella che rende conto, nel modo più epidermico, più sensibile, della trasformazione del mondo, degli esseri viventi, del tempo, tante cose che appartengono al cinema e che, nel flusso delle immagini, rischiano di perdersi, di essere dimenticate. 

E anche se ho poche certezze, sono sicuro che questo pericolo sia estremamente reale e che se c’è una cosa che deve tenerci uniti, sia farvi fronte e tenere duro, per quanto siano potenti le forze da affrontare.

(6) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Cinema e inconscio

A questo punto, il mio lettore ha il diritto di chiedermi che cosa sia esattamente questa teoria assente e della quale il cinema di oggi avrebbe bisogno.

Mi sembra di aver già accennato questo indispensabile avanti e indietro tra la pratica, spesso determinata dall’uso di nuovi mezzi o supporti, intuitiva, spontanea, incontrollata, e il suo pensiero. Con ciò non voglio dire che l‘evoluzione delle arti sarebbe la parola della Pizia e che spetterebbe ai critici, agli studiosi e anche ad alcuni cineasti, come nel mio caso, tentare di decifrarne gli enigmi. 

Ma penso ugualmente che può essere importante, e senza dubbio essenziale, che l’opera possa suscitare questa ekphrasis di cui parlava Roberto Longhi, ossia quei discorsi che autorizzano, suscitano le domande, gli interrogativi, le scoperte che l’arte, nella sua ricerca di ciò che è vivo e delle sue contraddizioni, lascia irrisolti. Una scrittura che sarebbe dialogo con gli artisti, rivelazione dell’opera e, attraverso questa, anche mediazione con lo spettatore.

Intendo in senso più letterale: quello di saper leggere e rispondere alle domande sollevate giorno per giorno dalla pratica cinematografica. Ma vorrei anche spingere questa domanda un po’ più lontano e aprirla a due campi che nel contesto attuale mi paiono ricchi di potenziale: l’inconscio e l’etica.

(7) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Qui, più che altrove, parlo in prima persona e condivido delle preoccupazioni che mi hanno sempre perseguitato, anche quando perdevano forza, nella riflessione sul cinema e l’ispirazione dei cineasti.

Perdonatemi, per favore, le semplificazioni e le sintesi che comporta l’approccio di un tema così vasto ma è sotto due forme differenti che la psicoanalisi applicata al cinema può illuminarci. La prima, freudiana per riassumere, ci ricorda che nella sua preoccupazione per i personaggi e le loro azioni, l’autore non è mai pienamente consapevole di ciò che fa, così come lo scrittore, nel prendere in mano la penna, non scrive sempre ciò che aveva previsto di scrivere. La scrittura rivela il pensiero più di quanto il pensiero non congeli la scrittura: il cineasta come l’autore, per quanto lucido, non sa sempre quello che dice e quello che fa. È il suo inconscio che è al lavoro.

In tempi non troppo lontani, questa problematica andava da sé; ed era nella riflessione sui personaggi di Ingmar Bergman o di Michelangelo Antonioni, o ancora di Jacques Tati, che si andava a cercare quel che animava e determinava l’individuo moderno, nel bene e nel male.

Credo che potrebbe essere così anche oggi, in un’epoca in cui il senso del film, nelle sue molteplici forme, è più che mai oggetto di dibattito, di polemiche. Nei film, così come in ogni opera d’ingegno, è l’inconscio ad agire: noi gli apriamo le porte.

Nulla è più prezioso di ciò che l’inconscio dice attraverso di noi, non appena ci proibiamo luoghi comuni, strutture, convenzioni e tutte le altre false regole drammaturgiche determinate da comitati e commissioni da cui troppo spesso, ahimé, dipendono il presente e il futuro del cinema; limitando e deformando l’ispirazione autentica e i desideri veri dei giovani cineasti ai quali le regole dominanti nell’industria cinematografica insegnano a non essere loro stessi.

L’altra dimensione, secondo cui la psicoanalisi definisce il cinema, la chiamo, schematicamente, junghiana, in quanto il cinema, nella sua totalità, anche nelle sue forme più primarie e più convenzionali, può - e, secondo me, deve - essere letto come inconscio collettivo. Il mondo delle immagini, il fantastico, l’immaginario, è il sogno della nostra società dovunque ci conduca, anche verso banalità o delusioni. 

Ci informa, spesso senza saperlo, sullo stato del mondo meglio di ogni altra arte, ad eccezione forse delle canzoni, della musica popolare in ogni sua variante, che restituiscono in tempo reale i flussi che attraversano il nostro presente. 

Così, per fare un esempio, ho sempre considerato Star Trek come uno sguardo quasi documentaristico sulla vita d’ufficio e le interazioni tra gli impiegati, strattonati tra la routine quotidiana e i pericoli del mondo esterno; solo molto tempo dopo ho realizzato che la loro navicella spaziale si chiama in effetti “Enterprise”, l’impresa.

Su un registro più dark, è difficile non notare il proliferare di film ossessionati dalla distruzione e dalla fine del mondo, e costruiti attorno a supereroi Marvel, una sorta di vendetta dell’identità maschile messa in pericolo dalla ridefinizione del ruolo della donna nelle società moderne. 

E scelgo di proposito due tracce piuttosto primarie con la sola intenzione di mostrare che, se si tirano i fili, questo può aiutarci a pensare alle verità, anche quelle spiacevoli, che animano la nostra epoca.

(8) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Cinema ed etica

Arrivo ora all’etica, che merita delle domande anche se lo stato attuale del cinema rischia di darci poche risposte facili o soddisfacenti.

Per me la questione non si pone in termini morali, nella misura in cui la maggior parte delle opere di Ejzenstein o di Vertov potrebbero essere definite di propaganda, che lo stesso Rossellini ha fatto film approvati dallo Stato fascista, che possa essere doloroso guardare uno dei capolavori della storia del cinema, Nascita di una nazione, che Bergman, Hitchcock e numerosi tra i più grandi cineasti di sempre hanno realizzato film di guerra fredda. Questo non toglie nulla al loro genio. E non dimentico Leni Riefenstahl, il cui spazio - importante - è negato soltanto dal suo essere nazista e dai benefici che ne ha ricavato. Un grande cineasta come Xie Jin, l’autore ispirato di Stage sisters e Woman basketball Player n. 5, non ha avuto alcuno scrupolo a portare avanti la sua carriera nelle ore più buie della Rivoluzione culturale. 

Io sposterei la questione più su un registro partico, come quando André Bazin ha parlato di "montaggio proibito" nel momento in cui andiamo ad assemblare due inquadrature antinomiche, una bestia selvaggia da un lato e un attore travestito da esploratore dell'altro.

O quando Claude Lanzmann, che ho citato prima, mette in dubbio la legittimità di rappresentare e romanzare, per fini narrativi, campi di concentramento e camere a gas.

Ognuno ha il diritto di discutere e difendere il proprio punto di vista su tale questione. Non è meno rilevante e, soprattutto, ha il merito spingere al limite una domanda che si pone su scala ridotta in ogni gesto della pratica cinematografica.

Chi finanzia i film, da dove vengono i soldi, di chi siamo complici quando li spendiamo, quando pratichiamo la nostra arte? Con cosa siamo dovuti scendere a compromessi quando abbiamo dovuto adattarci alla domanda di un mercato, di un’industria che dettano le loro leggi? Di quale network televisivo che abbia raggiunto il suo pubblico in base a quale demagogia, approviamo le pratiche?

A quale famigerata domanda, a quale “grande pubblico”, disprezzato da quelli che pretendono di parlare a suo nome, ci siamo piegati?

Così, con quindici anni di ritardo, ho scoperto che il mio film Les déstinées sentimentales era stato distribuito negli Stati Uniti da una società, molto carina tra l’altro, il cui principale azionista era l’agitatore di estrema destra Steve Bannon. Sono a mio agio con tutto ciò? No, L’ho scelto? Non so, forse. In ogni caso, le cose sarebbero molto più chiare se tali questioni fossero discusse, messe nero su bianco. E tutto ciò vale anche per le mega produzioni americane che adattano le loro sceneggiature alle esigenze della censura politico-confuciana del regime cinese, così da raggiungere il pubblico più vasto del pianeta.

(9) Irma Vep (Olivier Assayas, 1996)

Penso spesso al titolo di un articolo di François Truffaut chiamato, ironicamente, “Clouzot al lavoro o Il regno del terrore”. Bisogna rendere giustizia, così come ha fatto Truffaut, all’immagine, allora diffusa e oggi ancora di più, del regista-demiurgo, che abusa della propria autorità e del proprio potere, a vantaggio di una ricerca indescrivibile, di un assoluto vago impossibile da esprimere a parole, di cui i capricci, le collere e la noncuranza sarebbero delle manifestazioni tangibili ma comunque inaccessibili ai comuni mortali. 

Ritengo, al contrario, che il cineasta abbia degli obblighi verso la sua troupe e che la qualità della concentrazione, la ricchezza della condivisione, la chiarezza di intenti facciano parte in modo determinante di quell’avventura collettiva che sono le riprese di un film. 

Spesso, ogni volta che ne ho avuto l’occasione, ho ringraziato le troupe dei miei film e ricordato come il cinema sia la somma di energie ritrasmesse da un regista, la cui arte sta soprattutto nella sua capacità di ascolto, di attenzione alle idee, ai flussi che nascono giorno per giorno sul set. Il suo talento sta anche nel saperli stimolare.

Credo profondamente che il cinema migliore dipenda dalla bontà dell'impegno di ciascuno in una strana impresa che ha a che fare con la reinvenzione, il reincanto del reale, ma che è anche un mondo parallelo, una vita parallela, in cui ognuno può superare sé stesso, realizzarsi e, in un certo qual modo, trovare un senso a quello che non è solo un lavoro, ma piuttosto l’impegno di una vita, una ricerca personale.

Con ciò non intendo affatto negare ciò che ho spesso affermato e che la regia è prima di tutto una forza di rottura negli automatismi che regolano il funzionamento di un set. Spetta alla regia rimettere costantemente in gioco le convenzioni e le strutture di una forma che è viva soltanto se viene messa in discussione, criticata.

Più la mettiamo in discussione più ci rifiutiamo di accontentarci di risposte preconfezionate, più ci convinciamo che il cinema può e deve essere mille cose - quello che è stato in passato o quello che gli resta da esplorare, questo territorio infinito e l’unico che meriti veramente di essere esplorato – più abbiamo l’opportunità di rivelare il vero senso della nostra arte e il suo posto nel mondo. Ma niente di tutto ciò può essere compiuto da soli: deve essere esteso, approfondito, messo in atto da ciascuno, con tutti i rischi che questo comporta e con la serietà che può permettere di realizzare tale ambizione.

Questo vale per le riprese di tutti i film e per tutti quei cineasti che hanno scelto di praticare la propria arte al di fuori delle leggi e delle regole dell’industria dello streaming e che hanno saputo preservare, spesso con dure lotte, la loro libertà - che nel cinema è il valore supremo - a vantaggio loro ma anche dei propri collaboratori.

Un film è un microcosmo, vi è rappresentata tutta la società, in tutti i suoi strati, ed è attraversato dalle stesse onde, dalle stesse tensioni. Soltanto, questi valori vengono messi alla prova in modo più immediato, più pressante, giorno per giorno e con conseguenze subito evidenti. In questo, accordo un valore inestimabile alla pratica etica del cinema, i cui benefici, le gioie come i pericoli sono condivisi da tutti, insomma un lavoro disalienante nel territorio stesso dell’alienazione. 

Parlavo di responsabilità, secondo me è al rispetto di questi valori che dobbiamo prima di tutto sottomettere la nostra opera.

Si sarà capito, non amo quello che è diventata oggi l’industria cinematografica nelle mani di dirigenti che somigliano più a responsabili aziendali usciti da business school, o di alti funzionari, spesso persone di grande qualità ma le cui reazioni, le ambizioni, l’immaginario, sono a mille miglia da quelli degli avventurieri, dei giocatori, dei visionari che hanno costruito questa cattedrale che ci accomuna, e che è quella del primo secolo del cinema.

Per questo ho sempre avuto fede in quello che viene chiamato il cinema indipendente - strutture il cui modello storico sarebbero Le Film du Carrosse di François Truffaut o Les Films du Losange di Barbet Schroeder ed Eric Rohmer. Ma questo significherebbe negare il lavoro di produttori che, pur nella giungla spesso ostile dei vari enti di finanziamento del cinema, nei meandri del sistema bancario, hanno saputo accompagnare, fuori da ogni logica di profitto, contenti anche solo di non rimetterci di tasca propria, i lavori singolari, atipici, perfino antagonisti di valori attuali, realizzati da autori autentici, anche loro animati da poco altro che dalle loro convinzioni, dalle loro ossessioni ma anche dai loro limiti e dalle loro debolezze, materia prima della loro opera.

È questo ecosistema, riformulato a seconda delle culture e dei Paesi, più o meno dipendente da una legislazione favorevole al cinema, o dal mecenatismo, o addirittura da niente, che ha mantenuto vive, per più di mezzo secolo, la riflessione, la ricerca, l’audacia e soprattutto una forma di integrità essenziale alla migliore pratica del cinema.

Abbiamo visto crescere l'onda del cinema in streaming. Abbiamo visto il cinema diventare un'industria, e questa stessa industria diventare dominante.

Esito nell’utilizzare i termini abbrutita e alienante che, non molto tempo fa, sarebbero scaturiti naturalmente dalla mia penna senza che io avessi bisogno di giustificarmi. Eppure, laddove, in altre epoche, si poteva sognare il cinema come un'utopia, mi sembra ora che sia diventato completamente distopico, e che sotto le spoglie dell'intrattenimento o anche riverniciato di politicamente corretto e sentimenti blandi, è essenzialmente consacrato alla perpetuazione e all'adulazione delle emozioni più condivise e dei desideri più bassi se non dei più sdolcinati. E quindi finisco per accontentarmi che un film, invece di parlare di ciò che è veramente importante, della natura, della luce e degli esseri umani, si astenga almeno dall'essere nefasto.

Ecco perché, in fondo oggi, è contro il cinema che il cinema dovrebbe essere fatto. In particolare se vuole, all'interno del nuovo mondo delle immagini, incarnare il bene più prezioso, il più vitale, cioè la libertà di pensare, di inventare, di cercare e di sbagliare, insomma di essere l’antidoto di cui abbiamo bisogno per preservare la nostra fede, per mantenere viva una fiamma, che è nostro dovere saper proteggere e trasmettere, generazione dopo generazione, in una battaglia che non è mai vinta.

In 2018, by analogy with similar initiatives in other art forms, Sabzian created a new yearly tradition: Sabzian invites a guest to write a State of Cinema and to choose an accompanying film. Once a year, the art of film is held against the light: a speech that challenges cinema, calls it to account, points the way or refuses to define it, puts it to the test and on the line, summons or embraces it, praises or curses it. A plea, a declaration, a manifest, a programme, a testimony, a letter, an apologia or maybe even an indictment. In any case, a call to think about what cinema means, could mean or should mean today.

 

For the third edition on 26 June 2020, Sabzian was honoured to welcome the French filmmaker and author Olivier Assayas. He had chosen Tarkovsky’s The Mirror to accompany his lecture. Sadly, due to the corona crisis, the screening could not take place. Olivier Assayas’ State of Cinema was streamed online.

 

Afterwards Olivier Assayas' State of Cinema was translated into various languages. This excerpt was translated to Italian by Fabiana Proietti and was originally published in Sentieriselvaggi21st, no. 10 (October-November 2021).

With thanks to Carlo Valeri.

MANIFESTO
08.12.2021
NL FR EN DK SK SE RO IT
In Passage, Sabzian invites film critics, authors, filmmakers and spectators to send a text or fragment on cinema that left a lasting impression.
Pour Passage, Sabzian demande à des critiques de cinéma, auteurs, cinéastes et spectateurs un texte ou un fragment qui les a marqués.
In Passage vraagt Sabzian filmcritici, auteurs, filmmakers en toeschouwers naar een tekst of een fragment dat ooit een blijvende indruk op hen achterliet.
The Prisma section is a series of short reflections on cinema. A Prisma always has the same length – exactly 2000 characters – and is accompanied by one image. It is a short-distance exercise, a miniature text in which one detail or element is refracted into the spectrum of a larger idea or observation.
La rubrique Prisma est une série de courtes réflexions sur le cinéma. Tous les Prisma ont la même longueur – exactement 2000 caractères – et sont accompagnés d'une seule image. Exercices à courte distance, les Prisma consistent en un texte miniature dans lequel un détail ou élément se détache du spectre d'une penséée ou observation plus large.
De Prisma-rubriek is een reeks korte reflecties over cinema. Een Prisma heeft altijd dezelfde lengte – precies 2000 tekens – en wordt begeleid door één beeld. Een Prisma is een oefening op de korte afstand, een miniatuurtekst waarin één detail of element in het spectrum van een grotere gedachte of observatie breekt.
Jacques Tati once said, “I want the film to start the moment you leave the cinema.” A film fixes itself in your movements and your way of looking at things. After a Chaplin film, you catch yourself doing clumsy jumps, after a Rohmer it’s always summer, and the ghost of Akerman undeniably haunts the kitchen. In this feature, a Sabzian editor takes a film outside and discovers cross-connections between cinema and life.
Jacques Tati once said, “I want the film to start the moment you leave the cinema.” A film fixes itself in your movements and your way of looking at things. After a Chaplin film, you catch yourself doing clumsy jumps, after a Rohmer it’s always summer, and the ghost of Akerman undeniably haunts the kitchen. In this feature, a Sabzian editor takes a film outside and discovers cross-connections between cinema and life.
Jacques Tati zei ooit: “Ik wil dat de film begint op het moment dat je de cinemazaal verlaat.” Een film zet zich vast in je bewegingen en je manier van kijken. Na een film van Chaplin betrap je jezelf op klungelige sprongen, na een Rohmer is het altijd zomer en de geest van Chantal Akerman waart onomstotelijk rond in de keuken. In deze rubriek neemt een Sabzian-redactielid een film mee naar buiten en ontwaart kruisverbindingen tussen cinema en leven.